Diario di cella 34. Il collasso delle carceri italiane, Gianni Alemanno e Fabio Falbo firmano un libro che nasce dalle viscere del sistema penitenziario. Non un memoriale personale, non un esercizio di autoassoluzione: il testo è, nelle intenzioni e nei contenuti, un documento politico e umano, scritto a più mani nel braccio G8 di Rebibbia da persone che il carcere lo vivono, lo studiano e lo subiscono ogni giorno sulla propria pelle. Alemanno e Falbo raccontano mesi di lavoro febbrile, notti insonni su manuali di diritto penitenziario, ore d’aria sacrificate, gruppi di studio improvvisati, corrispondenze con istituzioni, giuristi, avvocati e perfino con Papa Francesco. La scrittura diventa strumento di resistenza civile e, insieme, di denuncia.
Due storie lontane, una battaglia comune
Due storie lontane, una battaglia comune
I due autori provengono da mondi opposti: Fabio Falbo, quasi vent’anni di esperienza carceraria alle spalle, molti dei quali trascorsi in alta sicurezza, un percorso di studio e riabilitazione che contrasta drammaticamente con la difficoltà di veder riconosciuta la propria innocenza proclamata. Laureato in Giurisprudenza, impegnato come ponte tra detenuti e istituzioni, rappresenta una delle tante vite sospese nelle maglie della giustizia italiana.
Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma, approda al carcere dopo oltre un decennio di complesse vicende giudiziarie: accuse pesanti, condanne leggere, ricorsi pendenti. Una traiettoria che lo accomuna, come lui stesso nota, a figure politiche internazionali – da Sarkozy a Lula – cadute e risalite nelle pieghe della giustizia. Eppure il libro non è la storia di Falbo e Alemanno. È la storia del carcere.
Un sistema che può inghiottire chiunque
Il volume descrive un sistema che gli autori definiscono “kafkiano”: un luogo in cui si può precipitare senza un motivo chiaro e da cui è difficile uscire, perché tutte le disfunzioni del sistema giudiziario – lentezze, burocrazie, ritardi, sovrapposizioni – esplodono nel loro stadio finale, sulla pelle delle persone detenute. Secondo gli autori, la realtà carceraria italiana è l’esatto contrario della sicurezza e della certezza della pena: moltiplica l’illegalità invece di ridurla; rafforza il sentimento antisociale, soprattutto tra i giovani; premia i comportamenti devianti, penalizzando chi tenta di costruire un percorso di reinserimento; trasforma ogni carenza strutturale in un ostacolo umano e sociale insormontabile. Le istituzioni, scrivono, non riescono a colmare il divario fra la Costituzione e la realtà, fra i principi rieducativi e la pratica quotidiana dei bracci sovraffollati.
Termosifoni spenti, bracci saturi, diritti compressi
Nelle ultime settimane – segnalano Alemanno e Falbo – la situazione di Rebibbia è peggiorata. Nonostante le rassicurazioni istituzionali, il riscaldamento funziona a singhiozzo nei bracci G8, G11 e G12; nel G9 i termosifoni rimangono del tutto spenti e cresce l’insofferenza. Le salette per la socialità vengono trasformate in celle provvisorie, riducendo ulteriormente gli spazi vitali. Una denuncia confermata anche dal Garante regionale dei detenuti, Stefano Anastasia.
Verso il “Giubileo dei Detenuti”
Il prossimo 14 dicembre, nella Basilica di San Pietro, Papa Leone XIV celebrerà il “Giubileo dei Detenuti”, evento voluto da Papa Francesco. Sarà l’occasione per parlare di pena di morte e di condizioni disumane nelle carceri del mondo. Ma, sottolineano Alemanno e Falbo, non serve guardare lontano per trovare violazioni dei diritti fondamentali: basta osservare Roma, con le situazioni critiche di Regina Coeli e degli stessi istituti di Rebibbia.
Un libro che vuole aprire gli occhi al Paese
Il valore del volume è nella coralità: oltre agli autori, hanno contribuito accademici, garanti, associazioni come “Nessuno tocchi Caino”, giuristi dell’Unione Camere Penali, figure impegnate quotidianamente sul fronte dei diritti e della giustizia. Alemanno e Falbo lo definiscono un lavoro senza tornaconti, forse rischioso. Ma necessario. Perché – scrivono – “non sei un uomo se stai zitto e non parli”. Una frase che pesa come una sentenza e che sintetizza il senso ultimo del loro j’accuse: rompere il silenzio che da decenni copre il fallimento strutturale del sistema penitenziario italiano. Un libro, dunque, che non chiede indulgenza. Chiede verità. E, soprattutto, chiede riforme.


