Difficile non accorgersene. In Calabria l’antimafia ha ormai assunto le forme di un rito civile. Si marcia, si presenzia, si raccontano le storie delle vittime. E si fa bene, perché la memoria è una forma di giustizia, e la lotta alla ‘ndrangheta deve restare priorità collettiva. Ma c’è un lato oscuro in questo protagonismo civile: il suo essere selettivo.
Un mondo opaco
Un mondo opaco
Molte delle realtà che animano il mondo dell’associazionismo, che partecipano a tavole rotonde, che firmano appelli, che tengono viva la fiamma della denuncia, sembrano perdere smalto quando si tratta di mettere in discussione il potere politico. Non la mafia, non la ‘ndrangheta dunque, ma quella zona grigia – e troppo spesso opaca – in cui si annidano clientelismo, corruzione, inefficienza. In cui si governa senza visione, si gestisce senza etica, si sottraggono diritti con la stessa violenza, seppure senza armi.
La sanità calabrese
Prendiamo il caso della sanità calabrese: commissariata da anni, trasformata in una macchina senza guida né freni, con ospedali che operano nella precarietà più assoluta, reparti depotenziati, concorsi a termine, cure negate. Oggi è letteralmente in ginocchio. Tutto sembra sprofondare. Ma chi protesta? Le flebili reazioni (di pochi) si sono spente come candele.
Dov’è il civismo organizzato
Dove sono gli stessi volti che con coraggio denunciano la mafia, quando c’è da denunciare il disastro sistematico di chi amministra? Dove sono le voci del “civismo organizzato” quando un presidente di Regione – come Roberto Occhiuto – gioca una partita personale con le sue dimissioni, mentre la macchina pubblica si paralizza e le comunità restano senza risposte?
Un male storico
È qui che la narrazione civile mostra il fianco. Perché mentre si è prodighi nell’indicare il male storico della mafia, si è reticenti nel denunciare il male quotidiano del malgoverno. Un silenzio che pesa come una complicità. Perché indignarsi con la ‘ndrangheta è doveroso ma – paradossalmente – meno rischioso. Non tocca direttamente il potere. Non mette in imbarazzo le istituzioni, non scalfisce gli equilibri locali, non irrita i partiti, né le parrocchie, né i finanziatori.
Riluttanza ad alzare la voce
La vera frattura sta qui: nella riluttanza ad alzare la voce contro chi amministra male, promette tanto e non realizza nulla, gestisce le risorse pubbliche come se fossero personali. Come se legalità e trasparenza non fossero valori da pretendere anche – e soprattutto – da chi governa. Ed è così che la Calabria continua ad ammalarsi. Non solo di mafia, ma di abbandono, inefficienza, burocrazia, clientele. Di promesse mancate, riforme mai partite, strutture pubbliche svuotate. È una malattia silenziosa, quotidiana, meno eclatante ma devastante. Eppure, contro questa malattia, non si marcia. Non si accendono fiaccole. Non si protesta.
L’antimafia che non disturba
Forse perché la verità più amara è che una parte di questo territorio, del Vibonese come della Calabria, ha smesso di credere nella guarigione. Forse perché una parte del cosiddetto “civismo impegnato” ha scelto, coscientemente o per prudenza, di non disturbare il manovratore. Ma un’antimafia che non disturba il potere è solo retorica. È un esercizio sterile, incapace di cambiare davvero le cose. La legalità non è una bandiera da sventolare solo nei giorni della memoria. È una pratica quotidiana, che passa anche – e soprattutto – dalla denuncia della politica quando tradisce il proprio mandato.
Una terra prigioniera
Finché questo non accadrà, finché si continuerà a distinguere tra i mali da combattere e quelli da sopportare, la Calabria resterà terra prigioniera. Non (solo) della mafia, ma della paura di scegliere da che parte stare.