Sono passati quasi trenta giorni da quando 347 lavoratori vincitori di concorso del Ministero dell’Istruzione e del Merito (ex MIUR) hanno terminato il proprio incarico part-time da 18 ore settimanali nelle scuole calabresi, eppure da allora nessuna notizia ufficiale è giunta. Né un rinnovo, né una comunicazione chiara, né tantomeno una motivazione formale. Solo un silenzio assordante che lascia questi lavoratori – padri e madri di famiglia, professionisti del settore, molti dei quali con anni di precariato alle spalle – in un limbo che ha il sapore dell’abbandono.
Il concorso in questione è il noto RIPAM da 1956 posti, che ha visto assegnazioni in tre ambiti: Cultura, Giustizia e Istruzione. Mentre i colleghi del Ministero della Cultura e del Ministero della Giustizia hanno ottenuto un rinnovo dei contratti in concomitanza con la scadenza, per i lavoratori del MIM la porta si è chiusa senza preavviso. Nessun atto ufficiale, nessuna volontà esplicita, nessuna spiegazione pubblica.
Il 5 maggio scorso è diventata una data amara per queste 347 persone che, pur essendo risultate vincitrici di un regolare concorso pubblico, sono oggi a casa, senza stipendio, senza tutele e senza alcun orizzonte certo. Una vera e propria frattura, che diventa anche una questione di dignità. Perché qui non si parla di persone “in attesa”, ma di professionisti che hanno lavorato concretamente nelle scuole, ricoprendo ruoli fondamentali nell’organizzazione e nel supporto amministrativo, spesso supplendo alle croniche carenze del personale stabile.
Il dato più grave, forse, è che nessuna voce autorevole si è ancora alzata in loro difesa. Le sigle sindacali – sollecitate più volte – hanno risposto con comunicati interlocutori, rassicurazioni di circostanza e vaghe promesse. Ma a un mese dalla scadenza, i fatti parlano chiaro: questi lavoratori sono ancora fuori, e nessun passo concreto è stato compiuto per reintegrarli.
E mentre le istituzioni tacciono, cresce la frustrazione tra chi si è sempre speso con professionalità e correttezza. “Non ci è stato nemmeno detto se torneremo, né quando. Solo silenzio. È una violenza psicologica ed economica”, raccontano. “Abbiamo fatto il nostro dovere. E adesso?”.
La sensazione, sempre più diffusa, è che questa vicenda venga trascurata di proposito, forse per evitare contraccolpi politici o per lasciare spazio ad altre “urgenze” istituzionali. Ma il tempo stringe. Le bollette non aspettano. I figli da mantenere nemmeno. E quando si parla del diritto al lavoro, non si dovrebbe parlare per compartimenti stagni: tutti i lavoratori pubblici meritano rispetto, ascolto e risposte chiare.
Alla luce dei fatti, i lavoratori si chiedono: “Dove sono finiti i rappresentanti politici calabresi? Possibile che nessuno senta la responsabilità di alzare la voce, almeno per chiedere chiarezza? Eppure basterebbe poco: una proroga, un atto di continuità, almeno un cenno formale. Ma quel poco, finora, non è arrivato”.
Per ora, i 347 restano a casa, con il futuro sospeso. Ma non intendono restarci in silenzio. Hanno scelto di parlare, di raccontare, di denunciare. E continueranno a farlo finché qualcuno non risponderà. (foto web)