Calabria, il “Donbass berlusconiano”: Occhiuto vince, ma la terra resta ferita

l governatore conquista una riconferma storica con il 43% di affluenza. Un successo costruito sul potere, sulla rete dei consensi e su un centrosinistra incapace di reagire. Ma dietro la vittoria, una regione che continua a perdere i suoi figli

La notte della vittoria di Roberto Occhiuto ha il sapore di un trionfo annunciato. Ma non di quelli che profumano di entusiasmo popolare: semmai di rassegnazione lucida, di una Calabria che applaude chi governa perché non crede più che esista un’alternativa. Solo il 43% dei calabresi si è recato alle urne. Poco più di quattro su dieci. Gli altri? Molti non sono rimasti a casa per disinteresse – sono fuori, lontani, sparsi tra Milano, Bologna, Berlino, Londra, Madrid. Guardano questa terra da lontano, come si guarda un genitore che ti ha voltato le spalle. Una madre che non nutre, un padre che non protegge. La Calabria li ha lasciati andare via, senza cure, senza lavoro, senza futuro.

Calabria come il Donbass?

Calabria come il Donbass?

In queste ore, l’espressione più condivisa sui social – quella che coglie l’anima di questa tornata elettorale – è impietosa ma efficace: “La Calabria è il Donbass berlusconiano.” Un territorio conteso, bombardato da decenni di promesse e clientele, in cui il potere si rigenera sempre nello stesso campo, cambiando solo i protagonisti. Eppure, Occhiuto ce l’ha fatta. Ha invertito una tendenza storica: nessun presidente, finora, era mai stato riconfermato alla guida della Regione. Lui sì. Perché? Perché ha saputo gestire i social, cavalcare la narrazione del fare, dosare ironia e immagine. Ha irritato molti, ma ha conquistato la fiducia di tanti altri. E poi c’è il resto: la macchina del potere, quella che il centrosinistra non ha mai saputo contrastare, frenare, denunciare con coraggio.

L’amico di sinistra che vota Occhiuto

Un amico mi racconta una scena emblematica: un uomo di sinistra, contattato da un noto medico privato, invitato a votare “per un amico candidato di centrodestra”. “Non ho avuto il coraggio di dire di no,” confessa, “quell’uomo ha curato mia madre quando nessuno lo faceva.” Ecco, questa è la Calabria del 2025. Un sistema in cui la gratitudine personale diventa voto politico, e dove la sanità privata cresce sulle macerie di quella pubblica.

Bersaglio mancato

Il centrosinistra, dal canto suo, ha sbagliato bersaglio. Ha preferito cercare di mettere insieme gli ultimi superstiti di un arcipelago frammentato: ambientalisti dogmatici, nostalgici di un progressismo sterile, moralisti che dicono solo “no” su tutto a cominciare dal Ponte sullo Stretto. Che non sanno chiedere garanzie su nulla. Il campo progressista si è chiuso in una torre d’avorio, dimenticando la carne viva della Calabria reale.

Il populismo pentastellato

E Pasquale Tridico, pur nella sua buona fede, non è riuscito a bucare il muro dell’incredulità. È stato visto come “l’uomo di Giuseppe Conte”, non come il volto nuovo del riscatto calabrese. La sua sconfitta, più che contro Occhiuto, sembra un messaggio al Movimento 5 Stelle: in Calabria, il populismo pentastellato non attecchisce più. Occhiuto ora parla di futuro, ma il copione è già scritto. Il primo capitolo si chiama sanità: riprendersela, gestirla, governarla. Non per permettere ai calabresi di curarsi a casa propria, ma per ricostruire potere. La sanità è la chiave – per assumere, nominare, distribuire incarichi, consolidare equilibri.

Assessori e consiglieri supplenti

Poi arriveranno i trenta consiglieri, la nuova giunta, i nove assessori, gli equilibri da distribuire tra province e correnti. La fabbrica del consenso riparte, più oliata di prima. La Calabria di oggi, dunque, somiglia davvero a quel “Donbass berlusconiano” evocato dai social: una regione stanca, ferita, militarizzata dal potere politico, dove la vittoria di uno è la resa collettiva di tutti gli altri. Una terra che applaude chi la governa, ma non ci crede più davvero. Eppure, tra le macerie, resta una domanda che nessun vincitore potrà evitare: quanto può durare un consenso costruito sul silenzio di chi non c’è più?

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