Ecco come la ‘ndrangheta fece breccia a Reggio Emilia. L’analisi di Gianfranco Riccò

Il sindacalista parla dell'ingresso delle cosche nel cuore dell'Emilia Romagna mettendo le mani sull'economia del territorio

Il titolo del libro è, al tempo stesso, allarmante e intrigante: “Quel che resta di Reggio Emilia. Storie di reggiani e di malfattori”. Gianfranco Riccò, classe 1945, da giovanissimo operaio apprendista, è stato segretario della locale Camera del Lavoro per tutti gli anni Ottanta, proprio quelli del primo e consistente radicamento mafioso in terra reggiana. Successivamente, è stato assessore alla scuola e alla formazione professionale nella Amministrazione provinciale. Ma questo libro lo ha scritto da semplice cittadino armato di passione civica: negli ultimi tredici anni, ha raccolto, studiato, organizzato i materiali per la sua ricerca sulla penetrazione delle organizzazioni criminali – in particolare la ‘ndrangheta di origine cutrese – nella provincia di Reggio Emilia, con importanti diramazioni in altri territori emiliani, lombardi e veneti.

Una storia per tanto tempo ignorata

Una storia per tanto tempo ignorata

Il risultato di questa ricerca sono trecento pagine molto dense, suddivise in dodici capitoli nella forma di altrettante lettere a una amica immaginaria, che ripercorrono una storia lunga ormai più di quarant’anni. Ma anche lungamente ignorata, sottovalutata, rimossa, nonostante tanti e inequivocabili segnali, da gran parte delle istituzioni, della politica, della società, Con poche eccezioni, che Riccò non manca di ricordare: particolarmente importante, sul piano istituzionale, quella dell’ex prefetto Antonella De Miro, in carica dal 2009 al 2014, che svolse un ruolo fondamentale di denuncia e di sensibilizzazione con una, allora inedita, raffica di interdittive contro aziende in odore di rapporti con la ‘ndrangheta. Interdittive che, da allora fino ai  giorni nostri, sono diventate una costante anche con i successivi prefetti. . Il bubbone deflagrò rumorosamente con la maxi-retata dell’operazione Aemilia, nella notte tra il 28 e il 29 gennaio 2015, poi con il successivo processo – il più grande mai celebrato al Nord contro una organizzazione mafiosa – giunto a sentenza definitiva nel 2018. “Ma non vi illudete, non è finito niente”, avvertì già allora il “pentito” Antonio Valerio, che nel processo raccontò dettagliatamente la storia dell’organizzazione criminale di cui era stato tra i protagonisti. E infatti, all’operazione Aemilia ne sono seguite altre, con centinaia di persone coinvolte e sviluppi che sono ancora in corso. Tra le più clamorose, lo scioglimento dell’Amministrazione comunale di Brescello, primo caso in Emilia Romagna.

Tra le più numerose, quelle sul vorticoso e ininterrotto giro delle false fatturazioni per operazioni inesistenti. Un vera e propria specialità della ‘ndrangheta in salsa reggiana, attraverso apposite società fittizie, dette “cartiere”, che le producono e le smistano dietro compenso ad aziende reali. Le quali, a loro volta, se ne servono per taroccare i bilanci, evadere le tasse, truffare lo Stato.

Le trasformazioni economiche, sociali e politiche

Ma il libro di Riccò non contiene soltanto un meticoloso riepilogo di vicende criminali e di indagini giudiziarie. Ne propone anche una chiave di lettura, nel contesto delle trasformazioni politiche, economiche, sociali dentro le quali quelle vicende sono nate e si sono sviluppate. Certo, storicamente “galeotto” fu il trasferimento in soggiorno obbligato da queste parti, nel 1982, dell’allora capo cosca Antonio Dragone, con un seguito di degni sodali mimetizzati nel grande flusso di immigrati in arrivo da Cutro. Certo, a determinare gli equilibri criminali e l’avvento del nuovo boss Nicolino Grande Aracri furono poi le successive guerre di mafia, con attentati e morti ammazzati tra Cutro e Reggio Emilia, nel corso degli anni Novanta e fino ai primi anni Duemila. Ma quanto ha pesato nel potente insediamento ’ndranghetista – non l’unico: il libro ricorda anche l’arrivo nella ricca Reggio di gruppi criminali di origini albanese, nigeriana, cinese, pakistana, dell’Est europeo – il declino di valori, di conquiste sociali, di rapporti solidali e di partecipazione che avevano caratterizzato la storia di questa terra? Che fine hanno fatto i famosi “anticorpi”, che avrebbero dovuto renderla impermeabile a fenomeni da molti considerati lontanissimi e qui non replicabili?

La svolta: il precariato e le cooperative

I grandi cambiamenti globali – sostiene Riccò – hanno avuto ovviamente ricadute locali. Purtroppo anche negli aspetti più deleteri: liberismo sfrenato, arricchimento senza regole, evasione fiscale, compressione dei salari, diffusione del precariato, del lavoro nero, delle finte partite Iva, delle pseudo-cooperative inventate per eludere i contratti nazionali. Cose che, purtroppo, sono diventate normali soprattutto in alcuni settori: l’edilizia, l’autotrasporto, la logistica, i servizi. La forte immigrazione di lavoratori cutresi, poi da tante parti del mondo, ha alimentato fortemente alcuni di questi aspetti, pensiamo al caporalato e al cottimismo. Però sono avanzate dinamiche più generali che hanno investito l’intero corpo sociale, indebolendo una solida tradizione politica e culturali”. E a questo punto, il discorso non può che riguardare la sinistra, da sempre egemone a Reggio Emilia. Riccò era e resta uomo di quella parte politica, ma non fa sconti: “Sono progressivamente saltati paletti importanti, che proprio i partiti e le amministrazioni pubbliche della sinistra avevano piantato, in particolare riguardo le condizioni e i diritti dei lavoratori. Da sindacalista, ma anche dopo, ho potuto verificarlo direttamente. Ci sono stati arretramenti nella cultura politica e nei rapporti con i cittadini, una accettazione sempre più acritica della cosiddetta modernità”.

Il cammino lento e inesorabile delle cosche

Non si può comprendere la scarsa e ritardata percezione della presenza criminale – sostiene Riccò – senza analizzare l’acqua nella quale hanno nuotato i pesci mafiosi: “Se guardi come sono entrati nella nostra vita quotidiana, puoi vedere la distanza tra la retorica di tanti discorsi e la semplicità con la quale i mafiosi hanno intrecciato relazioni con pezzi della società reggiana”. Tutto documentato, per altro, dalle indagini e dalle sentenze. E dunque, cosa resta di Reggio Emilia? Cosa si può fare? <Chi ha responsabilità politiche – è l’appello di Riccò – farebbe bene ad agire per rinsaldare senza retorica il legame tra istituzioni democratiche e cittadini. Non aiuteranno le promesse ma il confronto diretto su quanto accade, quando si offre la possibilità di partecipare alla soluzioni dei problemi prendono vita forze enormi”. E ciascuno può dare una mano a costruire una cultura condivisa della legalità. “Dobbiamo formare e informare, parlare e non tacere, segnalare e non lasciare andare, testimoniare e non dimenticare>, scrive a sua volta nella postfazione Cristian Sesena, attuale segretario della Camera del Lavoro di Reggio Emilia. Appunto ciò che prova a fare il libro di Gianfranco Riccò.

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