Caro direttore, l’attribuzione del cognome ai figli costituisce un argomento affascinante per le molteplici implicazioni sociali e culturali. Dopo che è stata affermata l’uguaglianza giuridica dei cittadini davanti alla legge, la parità dei coniugi nel matrimonio, la definitiva emancipazione culturale e politica della donna, il riconoscimento del suo ruolo sociale ed economico, il diritto all’attribuzione del proprio cognome ai figli , la proposta dell’eliminazione del cognome del padre appare evidentemente eccessiva e rischia di dare l’ impressione di un vizio recente della sinistra, che è quello di attribuire enfasi a questioni che appaiono non immediatamente rilevanti per la vita dei cittadini.
Retaggio arcaico
Retaggio arcaico
Non si può negare che l’attribuzione ai figli del cognome del marito sia stata l’espressione di un arcaico privilegio, retaggio di subordinazione e espressione del diritto patriarcale risalente all’identificazione con il potere divino di far esistere le cose nominandole . A guardare in profondità si scorge, però, anche l’esistenza di una ragione più complessa, che risale al legame metagiuridico tra padre e figlio e che occorre tenere conto nel trattare una materia così delicata.
La madre è legata al figlio da una comunanza biologica, indissolubile, visibile e quindi di immediata rilevanza sociale. Il padre, al contrario, ha un legame biologico invisibile e che quindi necessita di un segno esteriore perché possa essere percepito dalla comunità e possa determinare l’appartenenza.
Supremazia giuridica
Tale segno è dato appunto dall’attribuzione del nome di famiglia, diretto non più ad affermare una supremazia giuridica ma una appartenenza socialmente riconosciuta. In questo senso la questione va capovolta. Non è uno dei genitori che impone il nome al figlio: è il bisogno di rendere visibile il legame biologico che impone di mantenere il nome del padre.