Il vescovo che rompe il silenzio: la povertà sanitaria è una ferita aperta. La Diocesi farà la sua parte, ma non può sostituirsi allo Stato

All’assemblea dei sindaci di Vibo Valentia, mons. Attilio Nostro richiama istituzioni e politica alle loro responsabilità: siamo la provincia più povera d’Italia. La gente non ha solo fame di pane, ma di cure

A volte, in mezzo al rumore delle parole politiche, servono voci capaci di farsi ascoltare anche senza alzare il tono. È accaduto questo pomeriggio alla conferenza dei sindaci di Vibo Valentia, quando il vescovo Attilio Nostro ha preso la parola e, con la sobrietà che lo contraddistingue, ha pronunciato l’intervento più netto, più umano e, paradossalmente, più politico della giornata. Nell’aula consiliare di Palazzo Luigi Razza, affollata di amministratori alle prese con la disgregazione del sistema sanitario provinciale, il presule non ha parlato di competenze, decreti, capitoli di spesa o riforme mancanti. Ha parlato di persone. Di poveri. Di un territorio che è il più impoverito d’Italia e che ospita – ha ricordato – “il comune più povero d’Italia”. Una provincia in cui la povertà non è solo una questione di reddito, ma attraversa tutto: istruzione, servizi, assistenza, salute.

Denuncia e disponibilità

Denuncia e disponibilità

“La povertà è anche sanitaria”, ha detto. Ed è forse la frase che meglio fotografa la condizione dei cittadini vibonesi, costretti a lunghi viaggi per una diagnosi, a mesi d’attesa per una visita, o – peggio – a rinunciare del tutto alle cure. Una verità che, mentre i sindaci discutevano di piani, numeri e responsabilità, è piombata in sala come una lama. Il vescovo  non si è limitato alla denuncia: ha offerto disponibilità. Una disponibilità concreta e già in cammino.

Ha ricordato che la Diocesi, pur non potendo sostituirsi alle istituzioni, sta lavorando per colmare almeno alcuni vuoti drammatici del territorio. A gennaio aprirà un Centro antiviolenza, un presidio indispensabile in un’area dove il disagio femminile spesso rimane sommerso. “Un luogo per dare voce a chi rischia di non averne”, ha spiegato. Ma non si fermerà lì: “La Diocesi vorrebbe fare di più, magari anche in ambito sanitario, ma solo come supporto, non in sostituzione delle funzioni pubbliche. Il mio sogno sarebbe un centro diagnostico che integri ciò che manca”.

Il monito del Pastore

Parole che suonano come un monito: la Chiesa può aiutare, ma non può tappare i buchi di uno Stato assente. E poi la promessa: “Farò tutto ciò che è in mio potere per favorire il dialogo tra le parti. Sono a vostra completa disposizione”. Una frase semplice, eppure potente, in un territorio dove la frammentazione istituzionale è diventata la normalità. Il suo intervento ha lasciato un silenzio diverso, più carico, quasi una sospensione. Perché, al netto delle bandiere e delle appartenenze, resta una verità ineludibile: la sanità vibonese è un’emergenza umana prima ancora che amministrativa. Il vescovo l’ha detto con dolcezza, ma il messaggio è stato durissimo: non possiamo più permetterci di voltare lo sguardo altrove.

Il tempo delle attese è finito

Se anche la Chiesa, tradizionalmente prudente nelle sedi istituzionali, arriva a denunciare apertamente l’urgenza del collasso sanitario, significa che il tempo delle attese è finito. E che, ora, tocchi davvero alla politica restituire a questo territorio ciò che gli è stato tolto: dignità, cure, futuro.

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