La solitudine di un testimone di giustizia: dimenticato dallo Stato, braccato dal clan

Nel 2006 M.T. e la sua famiglia denunciarono le estorsioni della cosca Mancuso ed entrarono nel programma di protezione

“Abbiamo denunciato perché credevamo nello Stato. Oggi, dopo quasi vent’anni, siamo soli. E dimenticati”. M.T. non ha mai avuto dubbi quando decise di denunciare. Era il 2006. La sua famiglia, vittima di intimidazioni e richieste estorsive da parte di esponenti della cosca Mancuso, una delle più note e temute della ‘ndrangheta calabrese, entrò nel programma speciale di protezione per testimoni di giustizia. Quella scelta, fatta con coraggio e senso civico, li ha salvati fisicamente, ma ha segnato per sempre le loro vite.

“Non si vive più. Si sopravvive, si resiste, ci si nasconde. Ma non è vita.”. Il processo partì anni dopo. Sei imputati, ritenuti affiliati al sodalizio mafioso, vennero chiamati a rispondere di reati gravissimi, tra cui estorsione aggravata dal metodo mafioso. Il procedimento penale n. 1943/2009 RGNR arrivò in tribunale, ma da lì iniziò un viaggio kafkiano nel cuore lento e distratto della giustizia italiana.

Tredici anni per una sentenza

La condanna, tanto attesa, è arrivata solo il 19 luglio 2023. Sono passati 13 anni. Tredici anni di udienze rimandate, fascicoli smarriti, giudici trasferiti, vuoti burocratici mai spiegati. Anni di paura, di silenzi, di ritorni forzati in aula a Vibo Valentia, dove tutto era cominciato, e dove ogni comparizione in tribunale sembrava un rischio.

“Ogni volta che tornavo in quella città, il cuore mi tremava. Avevo paura, non per me, ma per i miei figli”. E proprio mentre il processo era ancora in corso, con la testimonianza chiave da rendere, nel 2018 è arrivata la beffa: il Ministero ha deciso di revocare il programma di protezione, ritenendo cessate le esigenze di sicurezza. Una scelta che ha messo a rischio l’intera famiglia, ancora potenzialmente esposta a ritorsioni.

Dal silenzio dello Stato, all’attesa infinita

Soltanto un accordo raggiunto successivamente ha permesso una temporanea stabilità: in cambio della rinuncia alla protezione, lo Stato si impegnava al pagamento anticipato delle indennità spettanti, mentre gli immobili di famiglia sarebbero stati acquisiti dal patrimonio pubblico. Ma anche in questo caso, i tempi sono stati lunghissimi. E nel frattempo, l’identità lavorativa del testimone è stata resa pubblica online, mettendo a repentaglio la sicurezza di tutti. “Abbiamo chiesto aiuto, chiesto la rimozione di quei dati. Nessuno ha fatto nulla”. Quando infine arriva la sentenza, l’ultima delusione: le parti civili costituite dai familiari del testimone non vengono nemmeno menzionate. Solo al denunciante principale viene riconosciuto un risarcimento simbolico: 3.000 euro di provvisionale. “Neanche un euro ai miei familiari. Eppure hanno vissuto l’inferno insieme a me”.

L’appello ignorato

L’appello contro la sentenza è stato presentato da tempo, ma la Corte d’Appello di Catanzaro, dopo due anni, non ha ancora fissato il processo. Due istanze per la trattazione urgente sono state respinte, con motivazioni che fanno male. “La Corte ci ha detto che non c’è urgenza. Che il caso seguirà il suo corso. Ma quale corso? Quello verso la prescrizione?” Nel frattempo, come conseguenza della sentenza incompleta, sono partite le revoche di ogni beneficio previsto per le vittime di mafia e di usura: risarcimenti, tutele, fondi. Tutto a rischio, perché la giustizia non riconosce il loro status. “Abbiamo perso tutto. Ma il peggio è sentirsi invisibili, dimenticati da chi avrebbe dovuto proteggerci.”

Fantasmi di uno Stato assente

La storia di M.T. è quella di una fiducia tradita. Una fiducia nello Stato, nella legalità, nella giustizia. Una fiducia che ha richiesto coraggio, e che ha ottenuto, in cambio, solitudine. “Siamo diventati fantasmi. Ma la mafia non dimentica. Noi invece siamo stati dimenticati da tutti.” Mentre le carte restano ferme nei cassetti dei tribunali, la famiglia attende. Attende giustizia, ma soprattutto attende di tornare a sentirsi parte di un Paese che, almeno in teoria, promette protezione a chi trova il coraggio di parlare.

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