Lo scettro lasciamolo ai re, alle divinità. I mafiosi sono solo delinquenti

Il giornalista Luigi Stanizzi si sofferma sulla narrazione delle cronache giudiziarie e muove rilievi sui termini più diffusi

Luigi Stanizzi è un giornalista. Per tantissimi anni è stato un cronista di giudiziaria della Gazzetta del Sud. Oggi è un osservatore, uno studioso del fenomeno mafioso. Prova ad uscire dal coro mediatico e da un certo tipo di narrazione (senza con questo entrare nel merito della cronaca) ponendo alcuni spunti di riflessione. Vi proponiamo il suo articolo.

Lo scettro lasciamolo ai re e alle divinità, i mafiosi non hanno scettri. Sarebbe ora di finirla anche e soprattutto in ambito comunicazione nell’agevolare, seppure inconsapevolmente (sempre?), la mitobiografia del mafioso con termini che esaltano semplicemente chi altro non è che un delinquente, criminale, spesso assassino. Gente scomunicata dalla Chiesa, che quindi non può neanche prendere la comunione. Altro che “re”, “boss”, “papa”, “padroni” indiscussi, “padrini”, ‘mammasantissima” ecc. ecc. Togliamoli, almeno dai titoli. Delinquenti, sono solo delinquenti che devono soltanto convertirsi come implorato dai Sommi Pontefici. Basta con questi appellativi lusinghieri per dei criminali, che devono cambiare vita per migliorare la loro esistenza, il loro futuro. Talvolta la gente comune, leggendolo questi appellativi, rischia di convincersi che realmente sono solo i mafiosi a comandare, a dettare legge, a fare il bello e il cattivo tempo.
La giustizia intanto va avanti, lenta, talvolta lentissima, snervante, sembra non arrivare mai, in fortissimo ingiustificabile ritardo, ma arriva inesorabile. E così nel frattempo, il potere dei criminali nell’immaginario collettivo si radica e sembra prosperare ancora di più, aumenta, e si agevola la ‘ndrangheta il cui attecchirsi si basa proprio sull’egemonia apparentemente incontrastata in una comunità piccola o grande che sia. Mentre magistratura, forze dell’ordine, giornalisti seri, istituzioni sane, cittadini perbene, lavoratori onesti, mondo del volontariato, artisti, professionisti, politici illuminati, sindaci, operatori sociali, intere comunità, intellettuali, operatori culturali, scrittori, sacerdoti, arcivescovi, veri papi cercano di debellare come possono questo cancro che non fa soltanto male alla società civile, ma anche ai famigliari degli stessi ‘ndranghetisti costretti a vivere una vita triste, disperata, al cardiopalma. Che non porta a nulla di buono, solo al miraggio di una ricchezza senza sforzo, immediata, destinata a svanire all’improvviso dietro le sbarre di un carcere, nella migliore delle ipotesi. E basta anche con questo folclore di termini ormai desueti se non ridicoli, u picciottu e simili, di cui sorridono se non sghignazzano gli stessi mafiosi in cravatta e conti ai paradisi fiscali, leggendo cronache romanzate sui giornali di carta o digitali, o guardando la televisione in ore notturne. Salvo poi a tremare di paura – questo sì! – ai “concerti contro la ‘ndrangheta”: sono tutti lì a tremare di paura, io li vedo sempre terrorizzati come mai. Povera Calabria! Mmahh, comunque meglio un concerto che niente. Almeno si anima la cosiddetta società civile.
La stessa società (in)civile che quando si “libera” un paese soggiogato dalla ‘ndrangheta (così titolano i giornali) con decine di arresti non fa assolutamente nulla, né una fiaccolata col parroco, né una manifestazione pubblica, né una passeggiata con due cartelli contro i mafiosi, né un ringraziamento in gruppo sotto la Procura o davanti alla caserma; e neanche un concerto contro la ‘ndrangheta. E, magari, aspettano che il mafioso esca dal carcere per poterlo salutare di nuovo davanti al bar chinando platealmente il capo, in segno di servilismo, per poi odiarlo nell’intimo del cuore.
In Calabria non bastano gli inchini delle statue della Madonna portata a spalla da quattro delinquenti che, Grazie al cielo e ai Vescovi, la Chiesa sta allontanando.
Intanto, lasciamo in pace gli scettri e al massimo parliamo di bastoni. Così facciamo, almeno, un passo di formica in avanti. L’informazione seria necessita di seri cronisti, capaci, e semmai di seri mafiologi, non improvvisati.

Lo scettro lasciamolo ai re e alle divinità, i mafiosi non hanno scettri. Sarebbe ora di finirla anche e soprattutto in ambito comunicazione nell’agevolare, seppure inconsapevolmente (sempre?), la mitobiografia del mafioso con termini che esaltano semplicemente chi altro non è che un delinquente, criminale, spesso assassino. Gente scomunicata dalla Chiesa, che quindi non può neanche prendere la comunione. Altro che “re”, “boss”, “papa”, “padroni” indiscussi, “padrini”, ‘mammasantissima” ecc. ecc. Togliamoli, almeno dai titoli. Delinquenti, sono solo delinquenti che devono soltanto convertirsi come implorato dai Sommi Pontefici. Basta con questi appellativi lusinghieri per dei criminali, che devono cambiare vita per migliorare la loro esistenza, il loro futuro. Talvolta la gente comune, leggendolo questi appellativi, rischia di convincersi che realmente sono solo i mafiosi a comandare, a dettare legge, a fare il bello e il cattivo tempo.
La giustizia intanto va avanti, lenta, talvolta lentissima, snervante, sembra non arrivare mai, in fortissimo ingiustificabile ritardo, ma arriva inesorabile. E così nel frattempo, il potere dei criminali nell’immaginario collettivo si radica e sembra prosperare ancora di più, aumenta, e si agevola la ‘ndrangheta il cui attecchirsi si basa proprio sull’egemonia apparentemente incontrastata in una comunità piccola o grande che sia. Mentre magistratura, forze dell’ordine, giornalisti seri, istituzioni sane, cittadini perbene, lavoratori onesti, mondo del volontariato, artisti, professionisti, politici illuminati, sindaci, operatori sociali, intere comunità, intellettuali, operatori culturali, scrittori, sacerdoti, arcivescovi, veri papi cercano di debellare come possono questo cancro che non fa soltanto male alla società civile, ma anche ai famigliari degli stessi ‘ndranghetisti costretti a vivere una vita triste, disperata, al cardiopalma. Che non porta a nulla di buono, solo al miraggio di una ricchezza senza sforzo, immediata, destinata a svanire all’improvviso dietro le sbarre di un carcere, nella migliore delle ipotesi. E basta anche con questo folclore di termini ormai desueti se non ridicoli, u picciottu e simili, di cui sorridono se non sghignazzano gli stessi mafiosi in cravatta e conti ai paradisi fiscali, leggendo cronache romanzate sui giornali di carta o digitali, o guardando la televisione in ore notturne. Salvo poi a tremare di paura – questo sì! – ai “concerti contro la ‘ndrangheta”: sono tutti lì a tremare di paura, io li vedo sempre terrorizzati come mai. Povera Calabria! Mmahh, comunque meglio un concerto che niente. Almeno si anima la cosiddetta società civile.
La stessa società (in)civile che quando si “libera” un paese soggiogato dalla ‘ndrangheta (così titolano i giornali) con decine di arresti non fa assolutamente nulla, né una fiaccolata col parroco, né una manifestazione pubblica, né una passeggiata con due cartelli contro i mafiosi, né un ringraziamento in gruppo sotto la Procura o davanti alla caserma; e neanche un concerto contro la ‘ndrangheta. E, magari, aspettano che il mafioso esca dal carcere per poterlo salutare di nuovo davanti al bar chinando platealmente il capo, in segno di servilismo, per poi odiarlo nell’intimo del cuore.
In Calabria non bastano gli inchini delle statue della Madonna portata a spalla da quattro delinquenti che, Grazie al cielo e ai Vescovi, la Chiesa sta allontanando.
Intanto, lasciamo in pace gli scettri e al massimo parliamo di bastoni. Così facciamo, almeno, un passo di formica in avanti. L’informazione seria necessita di seri cronisti, capaci, e semmai di seri mafiologi, non improvvisati.

Luigi Stanizzi

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