Michele Vallelunga aveva 27 anni. Secondo quanto raccontano in paese, domani avrebbe dovuto sposarsi. Invece il suo corpo, crivellato di colpi di fucile, è rimasto senza vita in una contrada montana, impervia e silenziosa, di San Pietro di Caridà, piccolo comune al confine tra le province di Vibo Valentia e Reggio Calabria. Lì dove la strada si interrompe e inizia la boscaglia, la ‘ndrangheta continua a farsi guerra. E lo fa nel modo più brutale: con il sangue.
Giovedì 29 maggio, i killer avrebbero atteso il momento giusto. Poi hanno raggiunto e colpito Vallelunga. Senza lasciargli scampo. L’agguato è avvenuto in una zona difficile da raggiungere, lontana da occhi indiscreti. Sul posto sono arrivati i carabinieri, che hanno immediatamente avviato le indagini.
Secondo gli investigatori, il giovane sarebbe legato alla famiglia degli Oppedisano, storicamente in contrasto con i Morfei. Due cognomi pesanti nella mappa criminale della Piana di Gioia Tauro, due clan rivali che da anni si contendono, tra le altre cose, il controllo delle piantagioni di canapa indiana.
È quella che qualcuno, ormai, chiama senza mezzi termini “la faida dei boschi”. Una guerra antica e mai finita, combattuta lontano dai riflettori, ma non abbastanza da non lasciare segni profondi nelle comunità locali, che vivono sotto la cappa del silenzio e della paura.
Non è la prima volta che in queste montagne si spara per decidere chi deve comandare. E con ogni probabilità non sarà l’ultima. Qui dove lo Stato sembra lontano, e dove ogni stagione porta con sé un altro lutto, un altro nome, un’altra lapide.