Ci sono diritti che definiscono la sostanza di una democrazia più delle sue stesse procedure. Tra questi, il diritto alla salute. Perché non basta poter votare liberamente, se poi un cittadino, per curarsi, è costretto a migrare o a scegliere tra la propria vita e il proprio conto in banca. Una democrazia, per essere reale, deve essere curativa: capace di prendersi carico della fragilità, di proteggerla e trasformarla in dignità.
Articolo 32, il patto infranto
Articolo 32, il patto infranto
L’articolo 32 della Costituzione non è solo una norma giuridica: è un patto di fiducia tra Stato e cittadini. “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività.” Parole che dovrebbero risuonare come una promessa universale, ma che a Vibo Valentia si spengono nel silenzio delle corsie chiuse, nei reparti senza medici, nelle ambulanze che non arrivano. Quando la sanità diventa diseguale, non è solo la salute a essere minacciata: vacilla la legittimità democratica stessa. La prima ingiustizia che un cittadino percepisce non è quella ideologica, ma quella esistenziale.
La mappa dell’ingiustizia
A Vibo Valentia, la ferita della sanità si vede nei numeri. Solo 2,39 posti letto ogni mille abitanti, contro i 3,5 delle altre province. Un fondo sanitario tagliato del 3,4%, mentre altrove cresce del 5,4. Una mobilità passiva da oltre 60 milioni di euro, perché i vibonesi per curarsi devono andare altrove. E un punteggio Lea di appena 8,8, il più basso della Calabria, ben lontano dal minimo di sufficienza (24,5). I Lea (Livelli Essenziali di Assistenza) sono gli standard minimi di servizi sanitari che ogni Regione deve garantire ai cittadini: cure, prevenzione, assistenza. Quando i Lea non vengono rispettati, significa che una parte della popolazione è esclusa dal diritto alla salute. Dietro le cifre, c’è la realtà di un diritto esercitato a metà – o forse per nulla. Gli anziani e i disabili di Vibo ricevono 128 euro pro capite di quota sociosanitaria, contro i 470 euro destinati ad altre province. Un criterio “storico” che perpetua ingiustizie passate e le trasforma in regola.
Una ferita senza terapia
Il fondo premiale del Dca 217/2023, che avrebbe dovuto riequilibrare le disparità, è rimasto inutilizzato. Con i Dca 92/2024 e 181/2025, al territorio sono stati sottratti oltre 27 milioni di euro — risorse che avrebbero potuto significare assistenza, riabilitazione, cure domiciliari. I Dca (Decreti del Commissario ad Acta) sono gli atti amministrativi con cui il commissario regionale per la sanità decide come distribuire risorse, fondi e piani operativi nei territori. Quando i Dca penalizzano o trascurano un’area, non è una semplice scelta tecnica: è una decisione politica che incide sulla vita concreta delle persone. Persino i 4,9 milioni “di solidarietà” del Dca 112/2024 sono serviti solo a coprire disavanzi pregressi. E intanto, il piano di attuazione della rete territoriale, richiesto dalla Regione da oltre 15 mesi, non è mai stato deliberato.
Lo Stato che getta la spugna
Qui non c’è solo inefficienza amministrativa. C’è un vuoto di Stato. Perché la democrazia non vive di leggi astratte, ma di atti concreti, di responsabilità, di trasparenza. Quando un potere pubblico smette di rendere conto, non è più servizio ma appropriazione. A Vibo Valentia, la crisi sanitaria è il simbolo di una crisi più profonda: quella istituzionale. Non è una vicenda politica – è la prova di uno Stato che ha smesso di essere presenza. La commissione prefettizia, insediata da oltre un anno per risanare il sistema sanitario, non è ancora riuscita a varare la rete territoriale dei servizi, l’unico strumento per ottenere nuove risorse. Un ritardo che non è solo burocratico: è civile.
La democrazia sospesa
Quando la rappresentanza si indebolisce, la democrazia perde sostanza. Vibo oggi ha una voce politica flebile, una presenza marginale nei luoghi dove si decidono le risorse. Lo Stato si manifesta a intermittenza: con commissari, decreti, sigle tecniche, ma senza risposte concrete. E così, il cittadino vibonesi resta solo, in un limbo dove i diritti sono annunciati ma non garantiti.
La voce dal basso
Ma c’è chi non si rassegna. C’è chi, nel silenzio delle istituzioni, tiene viva la democrazia dal basso: il gruppo Caregivers Don Mottola, il Movimento Osservatorio Civico Città Attiva, Ali di Vibonesità, il Comitato per l’Ospedale di Serra San Bruno, la Consulta dell’Ospedale di Tropea. Le loro petizioni e denunce non sono atti di protesta: sono atti di cittadinanza. Ogni firma per chiedere equità nel Fondo Sanitario è un gesto politico nel senso più alto del termine. Un modo per dire che lo Stato non è un’entità astratta, ma una responsabilità condivisa. Si spengono lentamente, quando l’indifferenza sostituisce la partecipazione, quando la fiducia diventa sfiducia e la speranza si trasforma in rassegnazione.
Curare la sanità per curare la democrazia
Il caso Vibo Valentia insegna che la salute non è solo un servizio pubblico: è un indicatore di civiltà. Un ospedale efficiente, un medico che ascolta, un pronto soccorso che funziona — sono i luoghi dove la democrazia diventa tangibile. Là dove la sanità fallisce, si incrina la fiducia nello Stato. Un ospedale che funziona non è solo un presidio: è la prova che lo Stato non ha dimenticato i suoi cittadini. Difendere il diritto alla salute significa difendere la democrazia stessa. E finché anche un solo cittadino sarà costretto a curarsi altrove per mancanza di equità, la nostra democrazia resterà incompiuta — in attesa di guarire se stessa.


