“La Calabria – scriveva l’archeologo Paolo Orsi nel suo viaggio alla scoperta della nostra regione – è, e rimane, la terra delle grandi sorprese […]. Questa povera e negletta terra bisogna sinceramente amarla e comprenderla, bisogna circondarla di amorosa passione per strappare all’oblio i resti del suo patrimonio archeologico ed artistico, eloquenti testimoni del suo passato”.
Ma è proprio questo il punto focale. Strappare all’oblìo quel che resta del passato, alle nostre latitudini, non è cosa semplice anche perché, probabilmente, manca ancora la giusta percezione del valore dei beni culturali. Non si spiega diversamente, tanto per restare nel Vibonese, perché, a oltre cinquant’anni dalla sua scoperta, la cava romana di Nicotera continua a restare sotto i rovi oppure perché i Megaliti di Nardodipace, ubicati sul tetto delle Serre e da oltre vent’anni tenuti sotto i riflettori di archeologi e geologi di tutto il mondo, oggi appaiano tristemente dimenticati. Eppure i due geositi e la loro storia carica di misteri meriterebbero ben altra attenzione. A portarli alla luce, nel 2002, è un grosso incendio che, oltre a distruggere la pineta circostante, brucia le montagne di rovi e sterpi che li nascondevano da sempre all’occhio dell’uomo.
A fiamme spente, lo spettacolo che si offre agli occhi dei primi curiosi arrivati sul posto è straordinario. Enormi strutture rocciose accatastate su due distinte collinette poco distanti tra loro si stagliano contro il cielo ancora sporco di fumo. Il tam tam mediatico richiama sul posto studiosi di tutto il mondo. Ognuno fa i suoi rilievi, ognuno dice la sua, i misteri restano.
Ma è proprio questo il punto focale. Strappare all’oblìo quel che resta del passato, alle nostre latitudini, non è cosa semplice anche perché, probabilmente, manca ancora la giusta percezione del valore dei beni culturali. Non si spiega diversamente, tanto per restare nel Vibonese, perché, a oltre cinquant’anni dalla sua scoperta, la cava romana di Nicotera continua a restare sotto i rovi oppure perché i Megaliti di Nardodipace, ubicati sul tetto delle Serre e da oltre vent’anni tenuti sotto i riflettori di archeologi e geologi di tutto il mondo, oggi appaiano tristemente dimenticati. Eppure i due geositi e la loro storia carica di misteri meriterebbero ben altra attenzione. A portarli alla luce, nel 2002, è un grosso incendio che, oltre a distruggere la pineta circostante, brucia le montagne di rovi e sterpi che li nascondevano da sempre all’occhio dell’uomo.
A fiamme spente, lo spettacolo che si offre agli occhi dei primi curiosi arrivati sul posto è straordinario. Enormi strutture rocciose accatastate su due distinte collinette poco distanti tra loro si stagliano contro il cielo ancora sporco di fumo. Il tam tam mediatico richiama sul posto studiosi di tutto il mondo. Ognuno fa i suoi rilievi, ognuno dice la sua, i misteri restano.
Le ricerche dell’Unical
Sugli enormi massi e sulla loro origine, infatti, ancora si discute. Formazioni naturali o antropiche? L’interrogativo non ha trovato ancora risposte e, probabilmente, la situazione non cambierà neppure quando l’Unical, a cui la direzione del Parco naturale regionale delle Serre ha, recentemente, assegnato l’incarico di approfondire le ricerche e chiarire ogni mistero, darà i risultati degli studi effettuati tanto nel geosito “A” che nel geosito “B”. Una cosa appare incontestabile: entrambi gli accumuli di maestose rocce granitiche, qualunque possa essere la loro natura, meritano di essere valorizzati e portati all’attenzione di studiosi e visitatori.
Studiosi e visitatori che di sicuro non mancano e che continuano ad arrivare dal Nord Italia, dalla Germania, dall’Olanda e, soprattutto, dal Canada e dagli Stati Uniti. Ci arrivano perché i geositi nardodipacesi, con la loro imponenza e la loro maestosità, stimolano interesse e curiosità dappertutto; un po’ di meno in Calabria dove la storia del passato fatica a diventare storia di oggi.
Storia millenaria
I ricercatori che hanno dedicato tempo e attenzione allo studio dei Megaliti – e tra costoro non mancano uomini di cultura nardodipacesi tra cui gli ex sindaci Salvatore Tassone e Antonio Di Masi e lo storico locale Alfonso Carè – continuano a dividersi tra chi sostiene che gli stessi siano strutture di origine naturale e chi sostiene, invece, che si tratti di triliti di origine antropica impilati l’uno sull’altro per motivi religiosi, astronomici o sepolcrali e la cui altezza arriva oltre i dieci metri, mentre la larghezza supera i venti metri. “I due geositi – spiega lo studioso Giuseppe Calopresti, vicepresidente dell’associazione “Difesa diritti del territorio” – rappresenterebbero le vestigia di un’antica e misteriosa civiltà, forse quella dei Pelasgi o “popolo del mare”, che tra il 5mila e il 3mila a.c. migrò dall’Asia Minore verso occidente. Omero, nell’Odissea, chiama questo popolo “Feaci”. Secondo altra tesi – continua – la grafia runica di alcuni segni rimanderebbe ai popoli celtici. Tanto è vero che secondo i ricercatori del Dipartimento di Archeofisica dell’Università di Torino, i Megaliti di Nardodipace risultano essere astronomicamente allineati proprio con il più famoso sito inglese di matrice celtica. Pelasgi o celti, questi popoli – conclude Calopresti – sono giunti chissà da dove sulle coste joniche catanzaresi e vibonesi, insediandosi tra l’insenatura di Focà-Marina di Caulonia, la “Città della Porta” (oggi Nardodipace) ed il Golfo di Squillace”.
Nardodipace non è solo Megaliti
Nardodipace, in ogni caso, merita di essere visitata, conosciuta e apprezzata non solo per i Megaliti o per il grande senso di ospitalità dei suoi abitanti, ma anche per l’importanza della sua storia e per l’interesse che suscitano la Ferdinandea e l’azienda della Mangiatorella poco distanti, nonché le frazioni di Santo Todaro, Ragonà e, soprattutto, Nardodipace Vecchio dove ancora vivono un paio di ultraottantenni strenui difensori delle loro radici. Qui il tempo s’è davvero fermato. Il silenzio regna sovrano. I vicoli e i poster fotografici con scene e personaggi del passato parlano dei tempi andati, di un mondo che non c’è, ma che si ostina a vivere ancora.
L’alluvione del 1935
Da Nardodipace Vecchio, distrutto prima dall’alluvione del 1935 e, poi, da quella del 1951, sono andati tutti via, ma nessuno ha reciso il legame col paese natìo. Quasi tutte le abitazioni, infatti, appaiono integre e ben tenute a testimoniare che gli abitanti ci tornano spesso per respirare l’aria della loro terra. Infine, ultima tappa per chi volesse conoscere tutto il territorio di Nardodipace, resta la frazione di Cassari ubicata dall’altra parte della vallata dell’Allaro. In linea d’aria, è distante poco più di un chilometro. Per arrivarci, evitando micidiali scorciatoie, bisogna, però, percorrere 37 chilometri e attraversare più comuni.