Pentiti pochi, mafie forti: la fotografia amara dello Stato contro la criminalità organizzata

La relazione del Viminale aggiornata a fine 2024 racconta numeri, costi e limiti del sistema di protezione. Ma resta una domanda centrale: il pentitismo così com’è basta davvero a sconfiggere le mafie?

La ’ndrangheta continua a essere l’organizzazione mafiosa più impermeabile alla collaborazione con la giustizia. Lo certificano i numeri ufficiali contenuti nella relazione sulle speciali misure di protezione, firmata dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e depositata nei giorni scorsi in Parlamento. Una fotografia aggiornata a fine 2024 che, oltre ai dati, pone interrogativi politici e giudiziari di grande peso.

Le lege dei numeri

Le lege dei numeri

I collaboratori di giustizia provenienti dalla ’ndrangheta sono oggi 126. Un numero inferiore rispetto ai 217 della camorra, ai 143 di Cosa nostra e ai 156 della criminalità organizzata pugliese. In totale, in Italia, i pentiti sono 707, includendo 65 appartenenti ad altre organizzazioni criminali, spesso di origine straniera. L’analisi per fasce d’età restituisce un dato significativo: la collaborazione arriva tardi. Solo 11 pentiti hanno tra i 19 e i 25 anni; la stragrande maggioranza si colloca tra i 41 e i 60 anni (403), seguita dalla fascia 26-40 anni (228). Un segnale evidente di carriere criminali lunghe, radicate e difficili da scalfire.

Pentitismo e lotta alle cosche

Accanto ai numeri, pesano i costi. Secondo il Viminale, sono 3.090 le persone complessivamente sottoposte a misure di protezione. La spesa annuale supera i 57 milioni di euro, assorbiti in gran parte da locazioni, trasferimenti e assegni mensili. Un investimento imponente per uno Stato che, tuttavia, continua a fare i conti con organizzazioni mafiose solide, adattive e profondamente inserite nei territori. Ed è qui che il dato statistico lascia spazio alla questione di fondo. I numeri sono sufficienti a sgominare davvero le mafie? Le leggi sul pentitismo hanno rappresentato, senza dubbio, uno strumento decisivo nella lotta a ’ndrangheta, camorra e Cosa nostra. Ma hanno anche introdotto un paradosso difficile da ignorare: affidare il racconto della verità giudiziaria a criminali incalliti, spesso responsabili di reati gravissimi, che in molti casi escono dal carcere per tornare a una vita quasi normale.

Il dilemma investigativo

Il bilancio, dunque, resta aperto. Tra utilità investigativa e dilemmi etici, tra costi pubblici e risultati concreti, il sistema dei collaboratori di giustizia continua a essere una delle armi più controverse – e fragili – dello Stato nella sua guerra alle mafie. Una guerra che, numeri alla mano, è tutt’altro che vinta.

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