Vive in esilio, protezione revocata e sentenza dopo 16 anni d’attesa. Giustizia è fatta per Michele Tramontana

L'ex falegname di Rombiolo, testimone di giustizia, racconta anni di soprusi e punta l'indice contro lo Stato: mi ha tradito

Sedici anni per avere la sentenza di primo grado. Un record tutto italiano giocato sulla pelle di un testimone di giustizia e dei suoi familiari e del quale non si può certo menar vanto. Un record che genera incredulità, sfiducia, rabbia. Dalla località protetta dove oggi vive “in esilio”, Michele Tramontana, 57 anni, ex falegname originario di Rombiolo medita su tutte le vicende personali degli ultimi vent’anni. Medita, soprattutto, sui disagi vissuti e su quelli che deve ancora sopportare assieme ai suoi familiari per fronteggiare, in particolare, le “dimenticanze” del giudice nella recente sentenza di primo grado.

Un’odissea senza fine

Un’odissea senza fine

Quella di Michele Tramontana, in sostanza, è un’altra delle non poche storie che vedono testimoni di giustizia protagonisti di odissee senza fine. Testimoni che trovano il coraggio di denunciare, ma che, a processo concluso e imputati condannati, spesso faticano ad ottenere tutte le garanzie previste dalla legge e che dovrebbero consentire loro di ricominciare un’altra vita, quasi sempre lontano dalla propria terra. Per l’ex falegname di Rombiolo, almeno per il momento, il calvario parte da lontano e rischia di andare lontano.

Il ruolo di Libera

Comprensibile, quindi, il suo sfogo che prende spunto dalla manifestazione “Contromafieecorruzione” in corso a Vibo e organizzata da “Libera” con la presenza di don Luigi Ciotti e altri rappresentanti di spicco delle istituzioni. Tramontana rimarca, innanzitutto, il grande sostegno morale ricevuto da Libera in tutti questi anni. A suo avviso, però, è giusto continuare a parlare di mafia e corruzione, ma sarebbe ancor più opportuno aiutare, in via prioritaria, tutti quelli che si trovano nelle sue condizioni a venir fuori dai guai. Lo sconforto, di fronte alle sofferenze che sta vivendo assieme alla moglie, dalla quale si è separato, e altri familiari è diventato ormai rabbia. Il primo risultato, dopo mesi e mesi di silenzio, è un articolato “sfogo” dettato dalla convinzione che si possa sopportare tutto, ma che, alla fine, sia pure giusto non nascondere certi comportamenti.

La sentenza, la distrazione e il danno

Michele Tramontana punta il dito contro la presunta “distrazione” del giudice di primo grado che, dopo sedici anni, chiude il processo condannando, è vero, due degli imputati, ma “dimenticandosi – afferma – di mettere mio padre e la mia ex moglie tra le parti civili costituite riconoscendo il loro diritto al risarcimento del danno subito>. Questo s’è tradotto, in concreto, nella richiesta di restituzione delle piccole somme già concesse dallo Stato e nella revoca del mutuo contratto dalla ex moglie. Ma non c’è solo questo a turbare Tramontana. Lo stesso giudice di primo gradoAnni di soprusi – spiega – non solo non ha inserito in sentenza le partici civili, ma mi ha, praticamente, umiliato concedendomi una provvisionale irrisoria”.

Il ricorso in appello

E c’è di più. “Per cercare di bloccare gli effetti della “dimenticanza” del giudice – racconta – assieme ai miei familiari ci opponevamo a quanto disposto in sentenza presentando ricorso alla Corte d’Appello di Catanzaro. Subito dopo il nostro legale di fiducia, l’avv. Rosario Scognamiglio, presentava una prima istanza per chiedere la trattazione ravvicinata del procedimento evidenziando sia la imminente prescrizione dei reati che il nostro stato di bisogno. Istanza reiterata dopo breve tempo con allegato il preavviso di revoca dei benefici”. La risposta della Corte d’Appello non tardava ad arrivare e la stessa “incomprensibilmente – sottolinea Tramontana – respingeva l’ultima istanza sostenendo che non vi erano motivi d’urgenza e che la trattazione sarebbe stata disposta secondo la calendarizzazione ordinaria dell’ufficio”. La sua amarezza è grande. Le preoccupazioni e i ricordi s’affollano nella sua mente.

Il sogno spezzato e la denuncia

Racconta dell’avvio felice della sua attività di falegname a fianco del padre Giuseppe nel 1995, degli investimenti per allargare l’attività utilizzando anche finanziamenti statali. Poi, l’infortunio sul lavoro con l’amputazione delle dita di una mano, l’interruzione del lavoro, il crollo delle commesse, gli esborsi per curarsi e il ricorso a prestiti sollecitati a familiari e a persone presunte amiche che si rivelavano, invece “aguzzini usurai”. Nel 2006, a seguito delle minacce subite e degli atti intimidatori che portavano all’incendio della falegnameria, “non potendo più far fronte ai pagamenti – rammenta – prima vado via dalla Calabria, dopo un anno ritorno e, assieme ai miei familiari, denuncio chi mi perseguitava”.

Programma di protezione revocato

A tre anni dalla denuncia, il Tribunale di Vibo avviava il procedimento penale e sei persone venivano chiamate in giudizio per usura aggravata dal metodo mafioso più altri reati. Nella vicenda, naturalmente, c’è spazio per il programma di protezione e per la sua revoca per “cessazione delle esigenze” avvenuta ancor prima dell’emissione della sentenza di primo grado. C’è spazio per il dolore causato dalla morte del padre, ormai in preda alla disperazione, e per il non poter partecipare ai suoi funerali.

Anni di soprusi

C’è spazio “per anni di soprusi – sottolinea – da parte di quello Stato che aveva garantito la nostra incolumità” e per “il fallimento dovuto all’indisponibilità nei tempi previsti delle somme riconosciute”. Ora si sente solo, tradito, sradicato. Eppure “sino ad oggi – conclude – non ho fatto alcuna pubblicità, ora basta. Ora parlo. Così non è vita”.

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