Tra atti vandalici e promesse elettorali, l’area archeologica di località Còfino giace dimenticata a due passi dal Castello svevo-normanno. Se non fosse per le ricorrenze che periodicamente ne permettono la visita, la cittadinanza vibonese mai avrebbe l’occasione di sfruttarne i resti per accrescere la consapevolezza delle proprie radici.
Domenica 16 giugno, grazie all’archeologa Maria d’Andrea, in via del tutto straordinaria si sono aperti i cancelli per un percorso guidato dal titolo ‘Un tempio ionico sulla collina di Hipponion’.
Domenica 16 giugno, grazie all’archeologa Maria d’Andrea, in via del tutto straordinaria si sono aperti i cancelli per un percorso guidato dal titolo ‘Un tempio ionico sulla collina di Hipponion’.
La serata è stata patrocinata dalla Direzione regionale Musei Calabria e dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Reggio Calabria e la provincia di Vibo Valentia, con cui la ricercatrice collaborava quando ancor prima della riforma si chiamava Soprintendenza Archeologia della Calabria. Si è trattato di un momento degli eventi locali per celebrare le annuali Giornate Europee dell’Archeologia, volute nel 2010 dal Ministero della Cultura francese e organizzate in Francia dall’Istituto nazionale delle ricerche archeologiche preventive, con successiva promozione in tutta Europa nel 2019, quando la nostrana Direzione generale Musei ha accolto volentieri l’invito di partecipazione.
La studiosa si è dovuta dar da fare nell’accogliere un nutrito gruppo di visitatrici e visitatori curiosi, segno dell’interesse che serpeggia nella comunità. La sua prolusione è partita con il ricordo della figura a cui dobbiamo l’identificazione dell’odierno insediamento urbano con la magnogreca Hipponion, l’insigne Paolo Orsi. Le testimonianze documentali e i rinvenimenti dagli scavi confermarono poi che la fondazione si ebbe per mano dei Locresi, alla fine del VII secolo a. C., dopodiché la floridezza della subcolonia fu messa in mostra a imperitura memoria nel museo del castello.
La vasta altura del Còfino ospitava all’epoca un’area sacra, nondimeno si è riusciti a dimostrare una presenza umana sia precedente – la popolazione indigena – sia successiva – i Romani – : da lassù la sicurezza era garantita più che altrove, potendo tenere sotto controllo i mari e le terre sino a distanze particolarmente considerevoli. Quale miglior collocazione per un santuario sontuoso da rendere visibile per chilometri e chilometri, coloratissimo come difficilmente da noi immaginabile?
La passeggiata ci ha consentito di costeggiare il basamento del tempio, ma la zona ha restituito a quintali reperti di ogni tipo, tra cui depositi votivi custoditi in apposite buche e offerti in onore di divinità.
Colpiscono le statuette in terracotta, anch’esse normalmente un tempo colorate, della dea Demetra che tiene un porcellino e una fiaccola. L’edificio, con il circostante perimetro sacro immerso in un fitto bosco anch’esso sacro, doveva dunque essere votato al suo culto, tuttavia si sa ora con certezza che precedentemente si riferiva alla figlia Kore-Persefone; in seguito le due pratiche devozionali furono affiancate. Si fantasticava che proprio fra quegli alberi, nel punto più alto della pólis, la fanciulla fosse stata rapita dallo zio, dando avvio al ciclo delle stagioni.
Nelle vicinanze il terreno ha fatto emergere addirittura una statua di marmo rimasta priva di testa, in esposizione presso il Museo Archeologico Nazionale di Vibo Valentia insieme con numerosi altri materiali.
Poco importa se permangono a essere visibili unicamente le fondamenta. Già queste bastano, con la monumentalità che è loro propria, a darci un’idea dell’imponenza che le strutture dovevano presentare. Non manca neanche l’altare, riconosciuto in un manufatto in blocchi di calcare. Un pizzico di fantasia, e si respirano i profumi di culti ancestrali officiati dai nostri antenati.