Approvato con delibera Asp n. 505 dello scorso 5 novembre, l’Atto aziendale – documento che dovrebbe fotografare vita, morte e miracoli dell’Azienda sanitaria – si avvia, probabilmente, a entrare nel dimenticatoio a pochi giorni dall’aver visto la luce. In realtà, l’Atto, di per sé di vitale importanza, non ha mai suscitato grandi entusiasmi. Polemiche sì, e anche tante. Le precedenti stesure hanno sempre disegnato un ‘paradiso’ in netto contrasto con la realtà sanitaria del Vibonese e, anche questa volta, ad un’attenta lettura del documento – per certo frutto di sicuro impegno – si fatica a trovare elementi che inducano a ipotizzare una effettiva volontà di cambiare spartito.
Il rischio della protesta
Il rischio della protesta
L’Atto aziendale è sempre stato considerato un libro dei sogni e libro dei sogni resta anche nella sua ultima versione, che evidenzia, infatti, una serie di lacune che, more solito, alimentano forti preoccupazioni per il futuro della sanità nell’intero territorio provinciale. Troppe ombre, troppe ‘dimenticanze’, troppa sottovalutazione delle esigenze reali. Ma anche troppa superficialità nell’inquadrare la situazione delle strutture periferiche, cominciando dagli ospedali per finire ai poliambulatori. Certo, la morte della periferia è da sempre il sogno di chi ama accentrare. Esagerare, però, può anche portare a risultati non messi in preventivo. La protesta dei Comuni delle Serre, che hanno ormai avviato il percorso per tornare alla provincia madre – e qualcosa comincia a muoversi anche a Nicotera, dove negli anni, perdurando le frequenti ‘distrazioni’ del potere centrale, si è cominciato a guardare con serietà al passaggio nella città metropolitana di Reggio Calabria – anziché suscitare critiche ingenerose, forse dovrebbe far riflettere. E non poco. In gioco c’è la sopravvivenza della stessa provincia di Vibo.
“Falle” preoccupanti
Tornando all’Atto aziendale, dall’analisi delle sue 64 pagine non è difficile individuare le ‘falle’ più preoccupanti. Il rosario di carenze comincia a sgranarsi con le Strutture complesse. Il loro potenziamento, previsto dal documento aziendale con l’aumento delle Strutture stesse da 14 a 17, rischia di rimanere un’operazione puramente nominalistica. Gli ospedali della provincia continuano, infatti, a soffrire una carenza sconcertante di personale medico e infermieristico. Risultano, tra l’altro, in organico appena 11 anestesisti contro i 27 necessari. Già questo primo dato dovrebbe spaventare. Si aggiungano le carenze croniche in psichiatria, diagnostica e pronto soccorso, e si comincia a delineare un quadro sicuramente da dipingere con altri colori. Alla resa dei conti, se non arrivano medici e operatori adeguati, le nuove strutture complesse rimarranno titoli privi di contenuto e condannati a navigare nel mare magnum della teoria e mai dell’operatività.
Tutto sommato, nell’Atto, l’attrattività dell’Asp diventa centrale, ma non vengono dettagliate misure concrete e misurabili per incrementarla (incentivi, formazione, telemedicina, partenariati). Il divario tra il “modello desiderato” e l’effettiva dotazione organica resta ampio. C’è di più: l’atto richiama organigrammi, dipartimenti e dotazioni di personale, ma non pubblica in modo chiaro e consultabile l’elenco di strutture complesse, strutture semplici e strutture semplici dipartimentali; sedi e presìdi di appartenenza, funzioni reali assegnate, collegamenti con il territorio, ruoli di ciascun dipartimento. Senza una rappresentazione chiara e tabellare, il documento resta poco leggibile e poco verificabile, rendendo difficile qualsiasi controllo pubblico.
L’ospedale di Tropea declassato
Più ombre che luci anche per quanto riguarda gli ospedali di Tropea e Serra San Bruno. Quello della ‘Perla del Tirreno’ appare come qualcosa di declassato e condannato all’irrilevanza. Storicamente definito come ospedale generale, dotato di reparti chiave e con un bacino turistico enorme durante l’estate, il nosocomio di Tropea viene, di fatto, messo nelle condizioni di non poter dare risposte adeguate alle mille esigenze di residenti e turisti. Pur non dichiarando apertamente la riduzione di rango, l’atto: non prevede nuove strutture complesse da assegnare a Tropea; riduce o ingloba molte funzioni sotto strutture complesse con sede a Vibo Valentia; non definisce chiaramente quali reparti restano operativi h24 con autonomia gestionale; non chiarisce l’operatività del pronto soccorso, già più volte in sofferenza; non assegna risorse aggiuntive per far fronte al massiccio afflusso estivo turistico.
Il presidio sanitario tropeano, in sostanza, rischia di trasformarsi in una struttura subordinata allo spoke di Vibo, privo della dignità operativa che la sua posizione territoriale e il suo bacino di utenza richiederebbero. In altre parole, non viene chiuso, ma svuotato. Questo rappresenta un colpo durissimo per il comprensorio tirrenico, che d’estate vede la popolazione moltiplicarsi e può contare solo su un ospedale ridimensionato proprio nei mesi di maggior necessità.
Preoccupazione a Serra
Se Tropea piange, Serra San Bruno di certo non ride. Il nosocomio montano resta apertamente senza garanzie. Classificato come presidio di “zona disagiata”, dovrebbe garantire funzioni minime tutelate per legge. Eppure l’elaborato redatto dalla commissione straordinaria, che da oltre un anno ha messo radici nella sede dell’Asp, non specifica con chiarezza l’operatività della dialisi, fondamentale per decine di pazienti montani; non descrive in modo puntuale la presenza di un servizio anestesiologico stabile; non chiarisce la dotazione del pronto soccorso e dei servizi diagnostici.
Di fronte alle tante ‘incertezze’ di programmazione, le comunità del comprensorio montano temono, giustamente, un lento e silenzioso svuotamento funzionale, senza chiusure dichiarate, ma, di fatto, insite nella realtà delle cose. Le dotazioni (personale, tecnologia, infrastrutture) non sembrano proporzionalmente rafforzate. Il rischio è che tanto Tropea quanto Serra rimangano sedi marginalizzate o con funzioni ridotte rispetto al modello ospedaliero e alle esigenze della popolazione.
Ombre sulle strutture territoriali
L’Atto aziendale, tra l’altro, richiama più volte la necessità di rafforzare il rapporto tra ospedale e territorio, ma, con non poco disappunto degli addetti ai lavori, non dettaglia Case e Ospedali di Comunità, non chiarisce i ruoli delle Strutture semplici dipartimentali territoriali, non definisce l’offerta territoriale né il gap rispetto al fabbisogno, né l’offerta standard secondo il DCA 197/2023, e non specifica il rapporto tra presìdi ospedalieri e Distretto.
Le strutture territoriali (distretto, assistenza domiciliare, Case e Ospedali di Comunità) non sempre sono adeguatamente codificate o dotate di forza contrattuale. L’organizzazione delle reti cliniche (cronici, prevenzione, presa in carico) è citata, ma con poca specificità riguardo al “come”. Va da sé che, se l’ospedale si organizza bene ma il territorio resta debole, il modello complessivo perde efficacia. Resta sul teorico e si perde tra i meandri di un’architettura sanitaria non adeguatamente operativa.
Cronoprogramma assente
C’è un altro aspetto da sottolineare. L’Atto aziendale non contiene un vero cronoprogramma: non indica la data dell’attivazione delle strutture complesse, manca un piano assunzionale strutturato, non indica indicatori di esito e non fissa traguardi da raggiungere. In altre parole, una buona organizzazione non si può ridurre solo a enunciati formali, ma va accompagnata da un’effettiva visione di governo clinico e dall’individuazione di responsabilità chiare. In assenza di tali presupposti, i cittadini non potranno mai verificare se ciò che è scritto verrà davvero realizzato.
Occasione sprecata
In conclusione, l’impressione è che l’impegno della terna commissariale si sia tradotto in un documento alquanto fumoso, più formale che operativo. Sicuramente un Atto inadeguato a intercettare le necessità di un territorio con carenze infrastrutturali, precarietà del personale e strutture ospedaliere in affanno. Un documento che non mette risorse, non assegna responsabilità chiare, non fissa termini e non delinea traguardi rischia di apparire più un esercizio di stile che un piano di rilancio. Un’altra occasione mancata, un altro progetto di architettura sanitaria magari elegante, ma del tutto incapace di incidere sui reali problemi di salute dei cittadini.


