C’era una volta un profugo veneto a Monteleone…

Colpito dalla natura e tradito dallo Stato, era qui di passaggio e fu avvicinato da un giornalista locale

Storie di ingiustizie e di soprusi, quelle che si annodano e convogliano a Vibo Valentia. La bella città che si staglia sul Tirreno è un attrattore delle umane speranze e delle amareggiate disillusioni, provengano esse dai suoi vicoli o da terre lontane.

Un giorno di tanti anni fa, nel quartiere dell’Affaccio, qualcuno si imbatté in un poveruomo afflitto e sofferente. Sembrava a prima vista uno straniero, i tratti del volto si distaccavano da quelli tipicamente nostrani, e in effetti l’apparenza non ingannava. Pur vestito di abiti malconci, mostrava un aspetto gentile e signorile, quasi da nobile. Camminava a piedi, anzi viaggiava a piedi, preso com’era dal passo andante. Veniva dal distante Veneto, era un farmacista e possedeva nel paese di origine un paio di piccoli poderi, interamente inghiottiti da un’inondazione. Un attimo, tutto perduto. Restare lì, quando ancora alcun intellettuale aveva coniato il neologismo “restanza”, voleva dire piangere e rimpiangere; soluzione: partire. Si ricordò di avere a Reggio Calabria un membro della famiglia, un fratello forse disponibile a dargli una mano. Per la verità, gli era passata per la mente la fugace idea di farla finita, ma solo per rigettarla come immorale e illecita. Chi si suicida è colpevole, e lui colpevole non voleva essere. Che avesse coltivato la speranza era a chiunque evidente, invidiabilmente tranquillo e più povero di un nullatenente.

Un giorno di tanti anni fa, nel quartiere dell’Affaccio, qualcuno si imbatté in un poveruomo afflitto e sofferente. Sembrava a prima vista uno straniero, i tratti del volto si distaccavano da quelli tipicamente nostrani, e in effetti l’apparenza non ingannava. Pur vestito di abiti malconci, mostrava un aspetto gentile e signorile, quasi da nobile. Camminava a piedi, anzi viaggiava a piedi, preso com’era dal passo andante. Veniva dal distante Veneto, era un farmacista e possedeva nel paese di origine un paio di piccoli poderi, interamente inghiottiti da un’inondazione. Un attimo, tutto perduto. Restare lì, quando ancora alcun intellettuale aveva coniato il neologismo “restanza”, voleva dire piangere e rimpiangere; soluzione: partire. Si ricordò di avere a Reggio Calabria un membro della famiglia, un fratello forse disponibile a dargli una mano. Per la verità, gli era passata per la mente la fugace idea di farla finita, ma solo per rigettarla come immorale e illecita. Chi si suicida è colpevole, e lui colpevole non voleva essere. Che avesse coltivato la speranza era a chiunque evidente, invidiabilmente tranquillo e più povero di un nullatenente.

Nel descrivere la catastrofe naturale non nascondeva il dolore patito, tuttavia la furia si sprigionava se gli toccava accennare al Governo e ai suoi sussidi prossimi al nulla, un vuoto desolante sia nel pubblico che nel privato. Chissà, si vede che – guarda caso – in quel periodo qualsiasi persona facoltosa era caduta in disgrazia nell’intera regione! Fumava, fumava la pipa per consolazione. Non portava con sé nemmeno una valigia, eppure la pipa era di quei beni necessari alla distensione dell’animo. Milleduecento chilometri senza mezzi, lungo le strade sterrate del diciannovesimo secolo. A lui era andata così, a lui e a tanti altri; non a tutti però. Anche allora gli individui dalle invidiabili facoltà, possidenti di una certa caratura, facevano contare e pesare le stesse oscurando i poveri – loro sì – “compagni” di sventura. Il ricco, da che mondo è mondo, perde uno e guadagna cento dallo Stato; la gente invece perde cento e recupera uno, da restituire con gli interessi.

Non è dato sapere che fine abbia fatto il veneto di passaggio. Vibo Valentia raccoglie storie, storie umane nel dramma della vita. Speriamo soltanto che il popolo monteleonese sia stato con lui accogliente, incidendogli un ricordo della città che gli abbia valso comunque la pena dell’infinita traversata.

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