Pane di pessima qualità nel Vibonese: lo scandalo delle farine straniere e dei prezzi alle stelle

A un certo punto, beni di prima necessità divenuti immangiabili e pericolosi, nell'assenza della politica

Niente da fare! Le richieste erano pervenute alla politica, ma gli uffici del palazzo le avevano disinnescate rendendole innocue. E il popolo monteleonese, nel mentre, rischiava di ammalarsi dando un bel da fare ai medici in città.

L’assessore per l’Annona, in quella primavera del 1883, aveva ricevuto una domanda ufficiale di intervento per risolvere l’incresciosa questione. Egli, il cui compito istituzionale era la tutela dell’approvvigionamento e il controllo del mercato, tardava nell’azione. I panifici avevano ormai assunto il pessimo costume di mettere in vendita del pane scadente e nocivo per la salute, preparato con farine che costavano pochissimo e che già diversi problemi stavano causando ai consumatori. Alcune arrivavano negli ultimi tempi dal circondario, altre erano varietà estranee alle coltivazioni locali; in ogni caso, nulla a che vedere con il tradizionale pane assaporato dalle nostre parti. Si paventò persino la possibilità di vietarne la messa in commercio, tante erano le noie provocate. Ma a infastidire maggiormente era la frode sottostante alla loro circolazione: se il pane era stato impastato facendone uso, diritto di ciascuno era saperlo prima dell’acquisto. Si spacciava un pane nuovo per quello di sempre, per di più allo stesso prezzo! Ciò veniva a verificarsi pure per la carne, teoricamente di varie tipologie e vari costi. A piacimento e a simpatia – o meglio, antipatia – , si smerciavano le parti meno nobili dell’animale facendole pagare come fossero le migliori e più succulente. Il giochetto, nell’un caso e nell’altro, era la trovata escogitata per porre un rimedio alle imposte insostenibili che gravavano sui piccoli lavoratori in proprio, ai danni tuttavia di innocenti compagne e compagni di sventura. Renzo, con i suoi quattro capponi litigiosi, ne sa qualcosa. A suon di beccate, i popolani nostrani si muovevano guerra senza colpire il vero bersaglio nemico.

L’assessore per l’Annona, in quella primavera del 1883, aveva ricevuto una domanda ufficiale di intervento per risolvere l’incresciosa questione. Egli, il cui compito istituzionale era la tutela dell’approvvigionamento e il controllo del mercato, tardava nell’azione. I panifici avevano ormai assunto il pessimo costume di mettere in vendita del pane scadente e nocivo per la salute, preparato con farine che costavano pochissimo e che già diversi problemi stavano causando ai consumatori. Alcune arrivavano negli ultimi tempi dal circondario, altre erano varietà estranee alle coltivazioni locali; in ogni caso, nulla a che vedere con il tradizionale pane assaporato dalle nostre parti. Si paventò persino la possibilità di vietarne la messa in commercio, tante erano le noie provocate. Ma a infastidire maggiormente era la frode sottostante alla loro circolazione: se il pane era stato impastato facendone uso, diritto di ciascuno era saperlo prima dell’acquisto. Si spacciava un pane nuovo per quello di sempre, per di più allo stesso prezzo! Ciò veniva a verificarsi pure per la carne, teoricamente di varie tipologie e vari costi. A piacimento e a simpatia – o meglio, antipatia – , si smerciavano le parti meno nobili dell’animale facendole pagare come fossero le migliori e più succulente. Il giochetto, nell’un caso e nell’altro, era la trovata escogitata per porre un rimedio alle imposte insostenibili che gravavano sui piccoli lavoratori in proprio, ai danni tuttavia di innocenti compagne e compagni di sventura. Renzo, con i suoi quattro capponi litigiosi, ne sa qualcosa. A suon di beccate, i popolani nostrani si muovevano guerra senza colpire il vero bersaglio nemico.

Il silenzio dell’assessore si fece molto sentire, tra un boccone di pane e una fetta di carne. E fra “compagni”, come dice la parola stessa, ci si divide quanto di più prezioso si abbia, il pane – “cum panis” – . Di quale farina però?

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