Si torna a scavare alla scoperta di templi, necropoli, mura, teatri e domus greci e romani

La campagna avviata a seguito dell'apertura del museo archeologico ricalcava le luminose stagioni trascorse

Fu una notizia accolta dall’intellighenzia valentina alla stregua dell’otto-primonovecentesca età aurea per l’archeologia locale, quella di Vito Capialbi e Paolo Orsi. Le persone più informate asserivano che da allora nessun periodo aveva visto così tanta attenzione per la Vibo Valentia sepolta sottoterra.

L’annuncio fu rilasciato il 10 giugno 1972 con una nota composta dall’ispettore onorario alle Antichità, il dottor Vincenzo Nusdeo: già da qualche giorno, con il ritorno del bel tempo, erano ripresi gli scavi previsti da un piano scientifico che il professor Giuseppe Foti, soprintendente alle Antichità, aveva elaborato e predisposto. Numerose le aree interessate; più le ricerche avanzavano e più i ritrovamenti impegnavano chi doveva studiarli.

L’annuncio fu rilasciato il 10 giugno 1972 con una nota composta dall’ispettore onorario alle Antichità, il dottor Vincenzo Nusdeo: già da qualche giorno, con il ritorno del bel tempo, erano ripresi gli scavi previsti da un piano scientifico che il professor Giuseppe Foti, soprintendente alle Antichità, aveva elaborato e predisposto. Numerose le aree interessate; più le ricerche avanzavano e più i ritrovamenti impegnavano chi doveva studiarli.

A cominciare dalla necropoli esplorata solo in parte, per giungere all’indagine di ulteriori tratti costituenti le mura, passando per un tempio greco arcaico in zona Còfino con reperti dal VII al V secolo a. C., muovendosi verso il teatro greco-romano individuato nell’orto dei conventuali francescani dietro la di oggi chiesa del Santo Rosario e quindi nell’approfondire l’entità della lussuosa casa romana di cui si era appena rinvenuto un primo vano pavimentato con un pregiato e delicato mosaico colorato. I lavori, avviati e diretti dall’archeologo Ermanno Arslan in collaborazione con la studiosa Elena Perotti, contemplavano inoltre l’attenta elevazione di una recinzione e una copertura in protezione delle mura dissotterrate, a beneficio di una loro fruizione confortevole in ogni dettaglio e dall’interno e dall’esterno.

L’aspetto turistico andava addizionandosi in tal maniera a quello meramente conservativo, facendo tesoro di quanto bene stesse facendo il novello museo archeologico alla comunità, la cui inaugurazione era stata simpaticamente avallata dal fato con l’immediatamente successiva scoperta della celeberrima laminetta. Non altrettanto immediatamente, invece, si erano mossi gli enti preposti alla salvaguardia del patrimonio, dalla Provincia alla Regione sino alla Cassa per la realizzazione di opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia meridionale: un loro pronto intervento era quanto mai urgente, pena il rischio di veder svanire per sempre, sotto le fauci della dilagante e selvaggia espansione edilizia, vestigia ancora recuperabili senza difficoltà.

Sbaglierebbe chi pensasse che l’archeologia è affare di dotti impegnati a disputare di lana caprina. È all’opposto questione sociale, di civiltà: rispetto per l’identità di chi eravamo, contro l’insulsaggine di chi va cancellandola non conoscendola.

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