Il colera all’orizzonte dall’India, ma la pericolosa sporcizia in città non accenna a diminuire

Riportiamo le conoscenze dell'epoca e gli inviti per limitare i contagi, malamente snobbati da politici e istituzioni

Estate 1883: lo spauracchio del colera si fa sempre più pressante a Monteleone di Calabria, con titoloni sui giornali che giustamente intimoriscono una cittadinanza analfabeta. Ma, per fortuna, esperte ed esperti coscienziosi non evitano di premurarsi in una sua serena rassicurazione.

Non era quella l’epoca dei mezzi di comunicazione di massa, inquinati da personaggi inesistenti in letteratura scientifica eppure onnipresenti a ogni ora del giorno. Con le loro indicazioni fantasiose e infondate, se al posto dell’epidemia da Covid-19 avessimo avuto una pandemia da colera, quasi nessuno avrebbe avuto scampo. L’Ottocento era semmai un secolo di scienza votata alla libera speculazione e scevra di distopiche ingerenze politiche.

Non era quella l’epoca dei mezzi di comunicazione di massa, inquinati da personaggi inesistenti in letteratura scientifica eppure onnipresenti a ogni ora del giorno. Con le loro indicazioni fantasiose e infondate, se al posto dell’epidemia da Covid-19 avessimo avuto una pandemia da colera, quasi nessuno avrebbe avuto scampo. L’Ottocento era semmai un secolo di scienza votata alla libera speculazione e scevra di distopiche ingerenze politiche.

Il dottor Cesare Catanzaro, preoccupato delle notizie che giungevano da fuori Italia, inviò uno scritto a una testata del capoluogo per informare e aggiornare lettrici e lettori sul fatto in corso, sulla base di quanto si sapeva in quel preciso momento. Il “male indiano” poteva divenire rischioso, per non dire mortale, negli ambienti ristretti privi di un ricambio d’aria: le povere abitazioni, le carceri, gli stabilimenti… Al contrario, l’aria atmosferica era in grado di annientarlo rapidamente del tutto. Una malattia contagiosa che si trasmetteva tra esseri umani, a causa di individui provenienti dai luoghi infetti, però per via indiretta; colpevoli erano la biancheria e gli abiti indossati, pregni dei mortiferi germi – i “materiali colerigini” – . Le acque rivestivano un ruolo cruciale, perché i microbi contaminavano fogne e condotti, rendendoli impuri e stimolando l’insorgenza di varie patologie, cui ora si aggiungeva il colera. Per facilitare il pronto intervento delle istituzioni preposte, lo studioso elencò la lunga lista delle condizioni favorevoli al suo sviluppo: sudiciume per le strade, miseria della gente, cloache aperte, letamai mal gestiti, rifiuti non smaltiti, fognature inadeguate, tubi sporchi, promiscuità di tubature, generi alimentari contenenti sostanze nocive, assenza di igiene pubblica. Combattere il “morbo gigante” che scorrazzava in giro per il mondo non era affatto una chimera, bastava voler abbattere con altrettanta veemenza la sua “immensa potenza”. In una sola parola, la pulizia era l’efficace arma terribile per allontanare, debellare e vincere il “mostro”.

E ahinoi l’Amministrazione comunale faceva orecchie da mercante, nonostante i qualificati gridi di allarme imponessero una vigilanza indefessa. Monteleone allora, Vibo Valentia oggi, sempre di lurida città parliamo; mutano gli olezzi circolanti nei quartieri, ma la spazzatura sempre per terra è.

Certo conforta l’apprendere della vetustà di insane abitudini locali. In un misto di incoscienza e imperturbabilità, al popolo vibonese piace rimuovere i brutti pensieri e ostinarsi nel pretendere che mai nulla davvero cambi.

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