La prima proposta di un nuovo museo vibonese per salvare le opere d’arte da ladri e predoni

Monsignor Francesco Albanese anticipò quello che dal 1988 sarebbe stato il Museo d'Arte Sacra al Valentianum

Quanto non si protegge è sfida alla sorte. L’odierna sensibilità per la tutela del patrimonio è figlia di una cecità pagata a caro prezzo: errori inevitabili ai contemporanei, giovevoli ai posteri.

Il 31 maggio 1972 la notizia prese a circolare nei salotti della città: monsignor Francesco Albanese, dotto professore che ricordiamo per la summa storiografica ‘Vibo Valentia nella sua storia’, aveva sollevato la questione con il pieno beneplacito dell’ispettore onorario alle Antichità, il commendatore Vincenzo Nusdeo.

Il 31 maggio 1972 la notizia prese a circolare nei salotti della città: monsignor Francesco Albanese, dotto professore che ricordiamo per la summa storiografica ‘Vibo Valentia nella sua storia’, aveva sollevato la questione con il pieno beneplacito dell’ispettore onorario alle Antichità, il commendatore Vincenzo Nusdeo.

Troppo ricca di tesori culturali era Vibo Valentia per temporeggiare oltre il dovuto; l’inerzia nei loro confronti non stava che alimentando un certo traffico illegale di ruberie e compravendite. In passato i nostri beni artistici godevano del privilegio di essere additati allo studioso o al turista quali bellezze da ammirare di persona, e invece dal boom economico il timore del troppo pubblicizzarli aveva preso il sopravvento nelle politiche locali. “Se li catalogassimo, offriremmo una succulenta esca agli esperti furfanti” era l’inoffensiva strategia seguita ai piani alti.

Serviva un chierico, per la precisione un presbitero, per azzardare una proposta oggi banale ma all’epoca rivoluzionaria: perché non radunare le opere d’arte in un ricovero ad hoc, strappandole da sguardi indiscreti di eventuali malfattori introducentisi in case private e chiese sontuose?

Alcuni ambienti erano invero già disponibili, da quando il Palazzo Gagliardi – acquisito dal Comune – aveva tre anni prima ospitato il museo archeologico statale. Il sacerdote non sottovalutava che presso quel plesso alloggiavano peraltro l’Istituto alberghiero con il proprio convitto e anche la biblioteca comunale, tuttavia all’orizzonte si stavano prospettando soluzioni alternative per entrambe le realtà.

In Via Sant’Aloe, infatti, nuove aule erano state adibite a vantaggio dell’Istituto professionale per l’artigianato, e dunque l’Istituto alberghiero avrebbe potuto occupare senza problemi quelle più vecchie da esso liberate. Buone notizie inoltre per la biblioteca, prossima a esibire una sede esclusiva grazie allo stanziamento di specifici fondi e, perché no, potenzialmente trasferibile in via momentanea nel vetusto Palazzo municipale di Piazza Indipendenza, con l’occasione utilmente rifunzionalizzato.

Il progetto avveniristico voleva prevedere un museo che funzionasse da tale a trecentosessanta gradi, con un’esposizione artistico-archeologica permanente e periodici incontri seminariali aperti al pubblico. Così, in luogo di porte spalancate e serrature difettose, il malintenzionato di turno si sarebbe imbattuto in un servizio di vigilanza adeguatamente formato, stipendiato per custodire e di conseguenza ben indisposto a corrompersi.

Il suggerimento non trovò nell’immediato una pronta accoglienza, il sasso era però stato lanciato e qualcuno, presto o tardi, lo avrebbe raccolto.

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