C’era un tempo in cui la nostra città sapeva onorare debitamente le eccellenze che mai hanno smesso di fiorirvi. Accantonando invidie e dissapori, la comunità si fregiava del pregio di poter vantare eccelsi nomi di fronte a ben più modeste realtà limitrofe.
Non accadeva sempre, sia chiaro, ma senza tema di smentita si affermi che, invero, in misura maggiore rispetto a oggi sì. L’ora dimenticato Luigi Albanese rientrava di diritto fra questi.
Non accadeva sempre, sia chiaro, ma senza tema di smentita si affermi che, invero, in misura maggiore rispetto a oggi sì. L’ora dimenticato Luigi Albanese rientrava di diritto fra questi.
Nato a Monteleone nel 1859, esercitava le professioni di violinista e compositore: un musicista che tutto il mondo apprezzava, docente di Violino, tra i più acclamati a cavallo tra Ottocento e Novecento. Aveva solo dodici anni quando, con un concorso, si guadagnò un posto gratuito al napoletano Conservatorio di Musica San Pietro a Majella, mentre da quattordicenne diresse a Pozzuoli una Messa a grande orchestra e subito dopo divenne primo maestro violinista nel detto Conservatorio e al Teatro di San Carlo. I concerti da lui tenuti, molti alla presenza di autorevoli personalità, superano quota settecento. Il 1892 vide un’illuminazione a festa nel teatro nostrano, eccezionalmente acceso per l’avvenimento di luce elettrica per celebrarne la notorietà. Nel 1924 un comitato internazionale, con oltre dodicimila adesioni, promosse una manifestazione solenne per encomiare i suoi primi quarant’anni d’arte: Napoli, ancora “capitale” del Mezzogiorno, gli dedicò ampie pagine sulla stampa locale e l’esecuzione del suo ‘Inno agli eroi della Patria’ nel Politeama cittadino.
Quando, di passaggio per recarsi in Svizzera, ebbe modo di esibirsi nella Prefettura di Foggia, il pubblico andò in visibilio; a maggior ragione per l’accoppiata che venne a crearsi, con la presenza dell’esimio Gino Golisciani al pianoforte. Quest’ultimo, famosissimo, era direttore d’orchestra e concertatore dalla altrettanto acclamata carriera, marito della cantante lirica Emma Golisciani Suhor. Insieme suonarono sette pezzi, in maggioranza composti dall’Albanese. Esperti osservatori notarono una rara abilità nel trattare la doppia corda e nel simulare il doppio violino di certune partiture, per non parlare dell’imitazione della cornamusa talvolta realizzata su tre corde e con una disumana forza esercitata sull’archetto per infliggergli la curva necessaria, o persino del pizzico compiuto con la stessa mano che reggeva lo strumento. L’uditorio a gran voce pretese il bis, gentilmente concesso.
E non è un caso che illustri critici musicali ne lodassero il talento. Citiamo Filippo Filippi, giornalista vicentino ritenuto espressione altissima dell’intellettualità contemporanea, e Michele Uda, scrittore cagliaritano fra i precursori del romanzo a sfondo sociale in Italia.
Nulla lo fermò, neppure la menomazione che lo colpì a una mano. Si diceva facesse parlare il violino, che grazie all’archetto “donato da Paganini” riusciva a esprimersi con voce umana.